Riuscire ad emergere, in un contesto senza più i punti di riferimento che hanno caratterizzato decenni, in un’atmosfera di inquietudine capace di autoalimentarsi, non è cosa facile.
La pandemia che ci ha disabituato alla vita di prima in un tempo troppo piccolo per dirsi passato in meno di una manciata d’anni; la guerra in Ucraina e i continui sconvolgimenti sociopolitici e ambientali; l’impatto dell’inflazione e le alterazioni della supply chain - e si potrebbe continuare - stanno modificando, inesorabilmente, l’assetto della nostra società, l’attitudine dei consumatori.
Si aggiungano un progresso tecnologico e digitale implacabili: evoluzioni in grado di aumentare l’efficienza, di instaurare sempre più connessioni.
Risorse, sì, eppure, dai tanti lati oscuri.
Il 71% della popolazione è preoccupato dalla protezione dei dati e della privacy su internet . Più del 50% teme che la tecnologia possa distoglierci dalla capacità di vivere il presente , di rimanere ancorati a una realtà di cui è sempre più complicato distinguere i contorni che illudono e sfumano in multiversi e intelligenze artificiali.
Riuscire a distinguersi, date le circostanze, non è cosa facile. Soprattutto per le marche, nei confronti delle quali vengono riposte aspettative sempre più alte, soprattutto ora, che qualità del prodotto, eccellenza dell’experience sono, ormai, dimenticate e superate.
Consumatori - persone - che vedono nei brand i legittimi sostenitori di valori rimasti senza più paladini.
Sventurata la terra che ha bisogno di eroi : Galileo oppure Brecht, che importa, tanto è attuale?
Non sono gli eroi ciò di cui abbiamo bisogno: sono i responsabili, quelli capaci di farsi carico e alleggerire, di schiarire il domani che il 74% degli italiani vede nero.
Non sono gli eroi che ci mancano: sono le marche. Marche che hanno dato forma alla realtà; marche capaci di avverare innovazioni che ci hanno cambiato la vita; marche promotrici di credo in cui riconoscersi e diventate bandiere; marche che ci definiscono, più di ogni altro simbolo.
Se è vero che ogni crisi genera opportunità, se è vero che nelle difficoltà non è semplice eccellere, è anche vero che la maggior parte dei brand ci sta, in qualche modo, tradendo.
Da un lato, consumatori sempre più informati (oltre che ansiosi), consapevoli, focalizzati; costretti a ridurre le spese e, quindi, interessati alla qualità, piuttosto che alla quantità.
Persone che si sforzano di evadere dalle preoccupazioni andando alla ricerca dell’eccezionale, del memorabile, di tutto ciò che possa rendere straordinaria un’esperienza - laddove, straordinario non è solo lusso: è partecipare a un evento, è concedersi una cena, uscire di casa.
Dall’altro, le marche.
Marche che hanno il potere di stravolgere le nostre vite, che ci hanno abituato a farlo: noi lo sappiamo, noi le aspettiamo. Ancora.
Marche che abbiamo costretto a esporsi, a prendere posizione sui temi che ci stanno a cuore.
Marche che si sono rifugiate in priorità dal nome “pragmatismo” ed “efficienza”, sulle ali di una tecnologia inappuntabile.
Dover gestire sempre più punti di contatto con i consumatori; adottare un approccio scalabile, capace di rivolgersi, adattarsi a culture e abitudini diverse; esprimersi con efficacia, soprattutto sui canali digitali, ha generato un obbligo: semplificare.
Semplicità: panacea dei giorni nostri. Semplicità: grande, unica risposta.
Non di per sé negativa, anzi: caratterizza ciò che è pronto alla comprensione, che è elemento costitutivo di composti altri, poliedrici. La semplificazione non è sfavorevole per forza, però, può essere un problema se applicata da tutti allo stesso modo. Se distrugge distintività e differenziazione.
I loghi, una volta eccellenza distintiva per vocazione e estetica, oggi: tutti uguali. Imperano lo standard, la leggibilità. Dov’è andata l’anima, vien da domandarsi.
E l’omologazione non si limita ai loghi: ne sono vittime cabine telefoniche, campanelli, pali stradali, librerie, arredi, capi d’abbigliamento, la fantomatica experience di qualsiasi cosa. Tutto indifferentemente sacrificato sull’altare della semplificazione: tutto indistinto.
Di sicuro: tutto gestibile.
Di sicuro: tutto immediato, instagrammabile.
Tutto confondibile, tutto uguale. Di sicuro.
Niente di più pericoloso per una marca. Soprattutto, una che aspiri a crescere.
Distinguersi, per un brand, è capacità di esistere.
Ed esserci, occupare una posizione chiara nella mente delle persone è la premessa fondamentale per non essere sostituibile .
Eppure, essere nitidi, netti, nella mente dei consumatori, per quanto vitale, è sempre meno vero.
In un contesto inafferrabile, (troppo) spesso incomprensibile, imprevedibile, dove il futuro
è confuso e, potenzialmente, spaventevole, le marche stanno facendo la fine di contadino, figlio e asino della favola di Esopo: tirate per la giacchetta, da tutte le parti, costrette ad accontentare e, quindi, condannate a scontentare tutti quanti.
In un mondo dove il mal comune mai è mezzo gaudio - piuttosto, occasione persa, occasione che (forse, si spera) coglierà qualcun altro - la differenziazione è ciò che permette a una marca di assicurarsi sopravvivenza e crescita.
È ciò che distingue i leader da chi verrà lasciato indietro.
È - volendo adattarsi all’era della gran semplificazione - la chiave del successo. Eppure, nessuno pare approfittarsene davvero.
C’è abbondanza di quelle che chiamiamo aree di opportunità, c’è richiesta - preghiera, se non supplica - di marche pronte a rimodellare, a farci tornare ad avere fiducia, quella vera.
C’è spazio, c’è modo: abbiamo bisogno come l’aria di marche che si approprino di un’immagine, che sia unica, in grado di cambiare, ma per davvero, le cose e i paradigmi.